TEXTE EN FRANÇAIS

 

 

 

Realtà dello scrittore

 

Texte paru dans le n°150 de La Revue Littéraire Labirinti
de l'Università degli studi di Trento - Dipartimento di Lettere e Filosofia

 

 

Avventure da non credere. Romanzo e formazione

 

 

Photo de Pia Petersen

 

 

La realtà è tutto ciò che è, ciò che ha un esistenza oggettiva e verificabile. Questo è quel che ci dicono tutti i dizionari: la realtà è qualcosa che sta fuori di noi e che non sempre possiamo controllare.

Essere scrittore, essere romanziere, è una condizione ambigua. Significa prima di tutto inserirsi in una lunga tradizione formata da persone che hanno scritto cose meravigliose, fatte per chiarirci, per farci sognare, per aiutarci a capire il mondo. Ma essere scrittore, essere romanziere, è anche ben poca cosa: sempre più scrittori affermano che i romanzi non servono a niente. C’è chi crede che il romanziere sia una versione caricaturale dell’uomo che pensa, e che sarebbe ora che la smettesse con il pensiero per lasciarsi andare all’istinto. Lo scrittore, il romanziere, è trascinato dalle stelle alle stalle. Lo si prende sul serio, quasi fosse un visionario, o lo si caccia dalla città come il peggiore dei bugiardi, come un uomo che inganna gli altri, forte di una tecnica ben precisa (un armamentario vero e proprio) per farlo. Dello scrittore c’è bisogno e al tempo stesso lo si denigra, gli si sputa addosso. Non si sa veramente cosa pensarne. È indispensabile o si può farne a meno? Qual è, precisamente, il suo ruolo? Ha una funzione? È un pedagogo? Ci insegna a vivere? E se invece fosse proprio lui a creare la vita che viviamo?

La realtà dello scrittore? Una perenne battaglia per essere ciò che è. Ma in fondo, che cosa siamo esattamente? Lo scrittore scrive racconti, scrive storie per le persone che le leggono. Le parole di Bruno Gillot, un amico webmaster, mi hanno fatto riflettere: Io ho solo una realtà ed è la vita che vivo. Per voi scrittori è diverso, avete tutte le realtà che create. Che lo voglia o no, io nella società ci sono coinvolta, spesso mio malgrado; giorno dopo giorno subisco le regole che la società mi impone e ne sono condizionata. E questa realtà diventa il mio materiale di lavoro. In mano mia, la realtà detta oggettiva diventa un complesso di tante realtà soggettive, che verranno oggettivate nei miei scritti. Esistono tante realtà quanti sono gli scrittori e ogni scrittore dispone di tutte le realtà dei suoi romanzi.

Lo scrittore ha scritto i miti fondatori, ha dato forma alla storia del mondo, della società, dell’uomo. Questo è il suo lavoro, e lo fa a modo suo. L’ultima tentazione di Cristo è un romanzo in cui Nikos Kazantzakis riprende la vita, le sofferenze, i dubbi di Gesù Cristo e riscrive una parte del Nuovo Testamento, a modo suo. Lo scrittore ci scrive. Per esistere per davvero, dobbiamo essere scritti.

Ciò di cui non si parla non è mai esistito. Solo l’espressione rende le cose reali (Oscar Wilde).
Rinunciare a nominare significa accettare di affondare (Hubert Nyssen).

Gli scrittori hanno scritto la Bibbia, il Nuovo Testamento, il Corano. Platone ha scritto Socrate, Cervantes ha scritto Don Chisciotte, Shakespeare ha scritto Romeo e Giulietta... Socrate esisterebbe se Platone non l’avesse scritto? Gesù esisterebbe se i discepoli non l’avessero scritto? E Dio? Anche lui è stato scritto.

Lo scrittore, il romanziere, pensa di essere inutile: è come se avesse dimenticato che proprio lui ha scritto i miti fondatori. Ha la sensazione che i media e le nuove forme di comunicazione lo rendano superfluo, che siano più bravi di lui. Se uno scrittore si sente dire di essere diventato un argomento di attualità, non ci crederà. Pensa che alla gente importino solo le ultime novità, i successi di botteghino, le serie TV, i videogiochi, i reality show, la telerealtà...

Le realtà di uno scrittore sono tante cose diverse. Io voglio capire che posto occupa nel mondo e come può svolgere il suo ruolo, scrivere. Abile manipolatore di finzioni, è lui la risposta vivente allo storytelling. È lui il primo oppositore alla manfrina che ci impartiscono le leggi di mercato.

Da sempre fuggiamo la realtà perché ci fa paura. L’uomo ha costruito la società per proteggersi da una natura che non sa controllare, per far fronte a una realtà spiacevole. Ha inventato la riscrittura del reale. Per me, questa realtà che fuggiamo è un enorme mistero e il rapporto che ogni essere umano intrattiene con lei è per me un mistero ancora più grande. La magia della vita non è nella vita in quanto tale, ma nella maniera in cui la si percepisce e tuttavia quotidianamente sento dire che nella realtà non c’è niente di magico. Vivere è doloroso, vivere è faticoso. Si lavora, si soffre, si muore. La vita è una grossa fregatura. Un tempo, si pensava ci fosse un paradiso o un mondo dietro al mondo o una reincarnazione e il tutto era certo più gratificante. Uno poteva sempre dirsi che una volta sbarazzatosi della vita gli sarebbe spettata una giusta ricompensa: un paradiso, o altre forme di vita. Messa così, la vita sembrava meno ostile, aveva un senso. Ma ora tutti, chi più chi meno, hanno rifiutato l’idea di paradiso e quel che ci resta è il presente della nostra realtà, il qui e ora, i nostri perché.
Se si potesse barattare la realtà con qualcosa di più ospitale, chi rifiuterebbe? Chi non vorrebbe vivere una felicità assoluta? Chi potrebbe dire no a tutte quelle cose che sono state inventate per rendere la vita più comoda? Parlo di casa, automobile, acqua corrente, elettricità, ospedali, aspirapolvere, lavatrice, cellulare, computer...Ci affanniamo per raggiungere un ideale di felicità, quello che crediamo il nostro ideale di felicità. Per impedire che l’avvento della vera realtà non ci sconvolga, in Occidente vige un principio di precauzione che ci obbliga a credere che la nostra realtà sociale sia quella perfetta. Certo, può capitare che uno tsunami ci prenda alla sprovvista, capitano i terremoti, capita che qualche trader in libertà ci rovini, ma in generale riusciamo a gestire le cose e a costruire una realtà più piacevole di quella che avremmo senza tutti questi artifici.

A me non serve fuggirla, non mi serve mascherarla, né abbellirla. Cerco di affrontare quel che mi fa paura analizzandolo, scomponendolo, rimettendolo al proprio posto. Mi pare fosse uno dei fondamenti della psicanalisi di Freud: guardare in faccia il problema, palesarlo, in modo che non sia più lui a farla da padrone. Scrivo sulla realtà che ci è data per affrontarla, per sormontare la paura, per ritrovare quella magia che la paura ha annientato. Anziché fuggire o ostentare false apparenze, affronto la realtà.

L’allucinogeno più potente: la realtà (Émile Ajar).

Esperienza della realtà. Sono solo uno scrittore, solo un romanziere, solo un autore. Non sono nient’altro. Questa è la mia sola identità: scrittore. Ma uno scrittore deve avere delle cose da dire. Deve avere un’esperienza della vita, deve sondarla, deve avere un immaginario proprio. Deve anche avere qualcuno a cui rivolgersi: un orecchio, un’attenzione. Deve avere tempo a disposizione per scoprire la vita, per pensarla. La realtà di uno scrittore è la sua realtà, è la realtà degli altri, la realtà del mondo, è la realtà che egli inventata e interpreta. Ci sono più realtà. Lo scrittore può dire io, può dire lui. Quando io dico uno scrittore, dico al tempo stesso lui. Parlo dell’idea di scrittore. Lui non è altro che un materiale grezzo, è materia da romanzo, è un concetto universale. Ed io non sono niente di più.

Da romanziere vedo la società come una guerra in cui mi trovo costantemente confrontata alle nostre assurdità sociali. E devo reagire. Io sono uno scrittore nel profondo. Sono uno scrittore che interroga la società e i soggetti che la abitano: il denaro, la politica dell’ordine, la schiavitù, la solitudine, la manipolazione e la sottomissione, il rapporto dell’uomo con il mondo e con il sistema. Sono uno scrittore anche quando vado a fare la spesa. Ciò che mi identifica non scompare mai: il mio essere scrittore è sempre presente.

La realtà dello scrittore? La via del paradosso è la strada della verità. Per mettere alla prova la realtà, bisogna farla camminare su un filo teso (Oscar Wilde). Ogni minuto è un’avventura. Benché si tratti di un solo istante in cui non succede niente, nella mente di uno scrittore ogni secondo è materia da romanzo, e va vissuto come tale. In quanto interpreti della nostra realtà, possiamo farne un’avventura, una tragedia, una storia da raccontare e come tale la viviamo. Ogni esperienza nutre il mio immaginario e i miei temi riguardano sempre l’uomo, la sua capacità di vivere nel mondo e con se stesso. Ogni volta che mi oppongo a ciò che è, al mondo reale e alle leggi che lo inquadrano, imbastisco un nuovo laboratorio in cui osservare il rapporto basilare uomo-società-uomo (e senza passare per la telerealtà). Cerco di affinare sempre di più la mia visione del mondo, dell’uomo e della società in cui viviamo.

Uno scrittore deve andare sul campo, proprio come un giornalista. Per avere qualcosa da dire, si deve rischiare ed esplorare ciò che non si conosce. Ma il motore della scrittura è raramente l’esperienza in quanto tale, la spinta è data piuttosto da una domanda. Come si può vivere fuori dalla società? Si può dire di no alla società? È ancora possibile? Ci si può sconnettere?
Uno scrittore ha sempre un rapporto distintivo e specifico con la realtà. A forza di vivere in un romanzo, non vede più la realtà come qualcosa di dato, di obiettivo, ma attraverso il desiderio. La accerchia, la aggira, la sistema a modo suo, la inventa o la reinventa, la manipola. Con l’immaginazione la trasforma in qualcos’altro, per renderla più accettabile, la arricchisce.

L’obbiettivo dello scrittore è la realtà. Nei miei romanzi, la realtà è violenta. Io non la maschero. Non la abbellisco. Non mi rifiuto di vedere di cosa è fatta. La espongo nella sua complessità. Ne mantengo la durezza, l’aridità. La utilizzo come cornice: i miei romanzi si svolgono sempre in case vere, per strade vere e una buona parte dei miei personaggi sono persone vere, con i loro veri nomi.

All’inizio, per comprendere la realtà, leggevo. Mi sembrava ci fossero tante realtà da scoprire e dovevo conoscerle tutte. Sprofondavo nei libri perché solo nei libri affrontavo la realtà. La letteratura era la mia scuola di realtà.

Scrivere è quel momento magico in cui vedo le cose come sono: gli esseri, i nessi, i sistemi. La realtà. Entro nel reale, capisco come funziona. Quale realtà? La mia, la realtà di uno scrittore, quella soggettiva, sempre esposta perché costantemente riscritta. Nei momenti di vuoto tra un romanzo e l’altro, quando non scrivo, sono cieca: non vedo, non capisco niente, non so niente, non ho niente da dire. A dirla tutta, sono un po’ scema, sono una larva, una lucertola. Poi comincio un romanzo, scrivo qualche parola, la storia prende forma, si stabilisce una logica, comincio a pensare, a vedere, a comprendere.

La vita vera è la letteratura (Marcel Proust).

Grazie alla letteratura mi avvicino al reale, alla realtà, a ciò che è in quanto tale. Mi tiro in disparte per vedere le cose come sono, mi sposto nei tagli delle inquadrature, salto da un punto di vista all’altro, scavo tunnel nella realtà. Per me è indispensabile partire da un elemento che sta nella realtà. Qualcosa che mi interroga. Che voglio capire. Che non va come dovrebbe. Un malessere. Una frattura. Un’ingiustizia. Da anni esamino il nesso tra l’uomo e il sistema economico. Vedo un uomo piegato da ciò che lui stesso ha inventato per facilitarsi le cose. Vedo un uomo schiavo della propria creatura, un uomo che considera normale, se non addirittura naturale, perdere la propria umanità purché il sistema sopravviva. Vedo un uomo diventato prodotto economico, un semplice ‘vettore’ in un’organizzazione, un uomo che arriva al punto di definire se stesso in base al sistema economico e non in base all’idea di umanità che potrebbe essersi fatto. Redditività, efficacia, prestazione, capitalizzazione.

Scuola di vita? Scrivendo un romanzo tocco una realtà che è come una parola sottolineata due volte, è lì la mia libertà di scrittore, prendere la realtà per restituirla alla finzione come materia di riflessione. Ma nessuno vuole quei romanzi che dicono la realtà, che la mostrano, che la interrogano: i romanzi che potremmo chiamare ‘di vocazione’ o ‘d’intenzione’ vengono eliminati, bistrattati. Gridavano: A morte! È venuto a risvegliare il popolo, a fomentare la rivoluzione (Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione di Cristo). Dicono che sono cupi, tetri, difficili, faticosi, noiosi, dicono che c’è troppo da riflettere, dicono che insomma, basta, relax. Dicono... non mi piace!!

 

 

Couverture de La Revue Littéraire Labirinti- Éditions de l'Università di Trento (Italie)

 

 

Quotidianamente, il lavoro dello scrittore consiste nell’affrontare lettori, editori, famigliari, detrattori. Perché i detrattori? Perché uno scrittore non è più identificabile con una persona precisa, ma si trasforma nell’essere plasmato da ognuno dei suoi lettori. La sua realtà diventa una telerealtà. I suoi lettori sono dei telelettori. Detrattori poiché i lettori restano convinti della definizione che hanno dato: scrittore è colui che maneggia la finzione. Un romanzo è un materiale romanzesco che chiamiamo finzione. La finzione è un gioco. Ma le regole non le dicono.

In quanto scrittore sono considerato un creatore di finzioni, una specie di professionista dell’immaginario. Dicono che uno scrittore si riconosce dallo stile, dalla musicalità della sua scrittura. Certo, mi fa piacere essere uno stile, essere una musicalità, ma mi tocca purtroppo essere anche altro. Di qui ambizioni quali cambiare il mondo, pensare attraverso la letteratura. Una formula è stata data, lo scrittore è costretto ad accettarla. Ma quale formula? Quali sono le regole del gioco? Vogliono libri che facciano circolare una verità accettabile, una verità piacevole, una verità su misura. Vogliono emozioni, sensibilità. Vogliono un happy end.

Da quando frequento gli ambienti letterari ho imparato una cosa importante: ciò che un romanzo non deve essere. Un romanzo non è una verità, né una teoria scientifica, non è un aggiornamento sui fatti in tempo reale, non è un’analisi storica obiettiva, non è una filosofia... Il romanzo non è poesia, non è teatro, non è cinema. Non si scrive con le idee, né con le nozioni. Il romanzo è una finzione, la sua logica è fondata sul divertissement e dovrebbe coinvolgere emotivamente. Le cose vanno sentite. Giorno dopo giorno, lo scrittore impara quello che il romanzo non deve essere e quello che il romanzo non può fare. Non si possono fare ripetizioni (bisogna dimostrare di avere un certo vocabolario), non si può essere dogmatici (i lettori non apprezzano certe pedanterie), non si possono affrontare argomenti ‘non letterari’, non si può essere filosofici (che noia), non si può problematizzare (per far cosa?), non si può dire niente di preciso, si deve mostrare (l’azione, costi quel che costi), non si deve essere didattici, prolissi, letterari, non si deve essere poetici, non si deve essere politici.

Eppure, il romanzo è tutto ciò che non dovrebbe essere.

Distrazione: ecco cosa vogliono i lettori. Vogliono positività. Un atteggiamento che potremmo tradurre con un Sii rispettoso/sii obbediente.

La telerealtà è un sintomo, rivela un comportamento. Per uno scrittore non è facile essere se stesso. Deve rimanere entro i limiti che gli sono imposti. Continuano a ripeterci quello che non dobbiamo sperare e a me quello che non devo scrivere, le faccende in cui non mi devo impicciare, le ambizioni che non devo avere. Però io sono uno scrittore da sempre e da sempre voglio cambiare il mondo. È una cosa mia: voglio cambiare il mondo, voglio un mondo migliore. E ci credo fermamente, senza ombra di dubbio. Ho questa fiamma che mi brucia dentro. Mi dicono che non serve a niente cambiare il mondo. Che si ritorna sempre al punto di partenza. Scuola del mondo? Mi dicono di lasciar perdere, passare ad altro, scrivere libri più allegri, più divertenti, più empatici, libri in cui ci si possa identificare, ritrovare, riconoscere. Mi dicono che è meglio scrivere favole, così il lettore ci ritrova i suoi sogni. Mi chiedono di creare illusioni, imbrogliare la gente, fingere che il mondo mi piaccia così com’è, che mi piacciono le persone, che ho emozioni profonde, che mi sento chiamata in causa. Per dimostrare quanto io ami il mio prossimo, dovrei dargli quello che vuole, fargli credere che va tutto bene, che non c’è da preoccuparsi. Mi dicono di non pensare più a queste cose qui, alle diverse realtà del mondo, mi dicono che non è roba che mi compete, che non devo infastidire i lettori, che devo smettere di lottare.

Una letteratura che sia scuola del mondo è ancora possibile? Solo il fatto di porla, questa domanda, fa capire come stanno le cose.

La pressione del mondo esterno obbliga lo scrittore ad essere quasi sul piede di guerra.

Non si tratta solo dello scrittore e della realtà che egli elabora, osserva, pensa, percepisce. Il romanzo lo scrive lui, ma chi lo legge? Lo scrittore ha davvero il diritto di scrivere?
La società si rifiuta di pensare, ma non lo nega allo scrittore. Finché lo fa a casa sua. Anche lo scrittore entra nella logica economica: deve interessare un certo tipo pubblico, essere redditizio. Si capisce, no? Mica possiamo investire in perdita. Questo spinge all’autocensura. Scrivo quel che piace, quel che conquista, quel che si legge. Huxley parla dell’infinito appetito per le distrazioni, dice che non c’è più bisogno di censura dato che il lettore si censura da solo. Perché al lettore non frega niente di come va il mondo. Il lettore ha subito una mutazione. Non è più quel lettore che affrontava un’opera obiettiva. No, lui, ora, partecipa.

Un tempo, la censura esisteva perché la parola scritta aveva un valore. Attraverso un romanzo si poteva provare ad aggirare le interdizioni e dire le cose come stavano: si poteva riprendersi il proprio diritto di parola mascherando le parole.

Nei miei romanzi provo ad afferrare il lettore condividendo con lui le domande che mi sembrano importanti. Voglio che pensi, che senta le cose. Ma la realtà sociale oggi si rifiuta di pensare. Facciamo di tutto pur di non farci domande (la vita è già dura a sufficienza), pur di non prendere posizione, pur di non agire (e il tempo dove lo troviamo?). La riflessione e il senso critico sono rimpiazzati da un Mi piace, Condividi.

Una valanga di informazioni ci travolge. Su qualsiasi questione sanno spiegarci come siamo messi, a che punto siamo. Siamo sotto influenza mediatica. Con tutte queste nozioni, con questo sovraccarico di nozioni, non ci vediamo più chiaro. Non ci capiamo proprio niente. Non abbiamo più tempo per verificare un’informazione, meno ancora per contestualizzarla. A un’informazione ne segue subito un’altra altrettanto importante. Immagazziniamo tonnellate di informazioni, tutte ugualmente importanti, e non riusciamo più a selezionare, a collegare, a cavarci qualcosa che somigli a una comprensione del mondo. Impossibile giudicare. Ma le cose sono legate, sono sullo stesso piano. Come capirci qualcosa? Una vita in stile zapping, una vita frammentata, impedisce la continuità di pensiero. Poter seguire un filo conduttore è necessario al pensiero. Per organizzare le idee e dare giudizi è necessario fare collegamenti. A questo si aggiunga il fatto che ormai vediamo le cose in un’ottica di spettacolo. Non vogliamo più vedere il mondo in quanto tale. E così siamo pane per gli storyteller, loro ci danno quel che noi chiediamo.

Il reality-show mostra la realtà com’è veramente, naturale, allo stato brado. Mostra la banalità della vita quotidiana, mostra la realtà spontanea delle persone.

Il reality-show ci mostra la vera vita autentica di gente qualunque. In quanto naturale, questa realtà dovrebbe essere per forza vera, perché mi fa vedere le cose come sono.
Certi di essere nel giusto, prendiamo parte alla vita degli altri e possiamo pure intervenire. New paradise. Gli spettatori partecipano direttamente alla vita interna della trasmissione attraverso il televoto, hanno diritto di vita o di morte. Mi piace. Condividi. Non si argomenta più, non si esaminano più i pro e i contro: le cose sono positive o negative, la valutazione è semplice, basta un clic.

Ogni minimo dettaglio di un reality show è scritto, arrangiato, adattato, organizzato secondo un’ottica ben precisa: un staff lavora al montaggio e decide cosa trasmettere. Non c’è niente di spontaneo, se non la stupidità. Ma no, anche quella è voluta: è ciò che vuole il pubblico.
Tutto questo bisogno di realtà non è altro che la voglia di vedere se stessi in televisione.

Dovunque vada, l’uomo incontra solo se stesso (Hannah Arendt).

Vogliamo la realtà, ma la realtà che diciamo noi, e la realtà che ci piace è quella che ci assomiglia. Deve esprimermi, rivelarmi. Voglio me stesso. E me stesso in televisione sono io diventato star. Ci guardiamo allo schermo: siamo importanti. Per essere, bisogna essere una star.

Vogliamo che un romanzo ci dia la realtà che ci piace, che ci faccia credere che le nostre vite sono autentiche. Lo scrittore deve opporsi alla telerealtà e sapersi confrontare con gli atteggiamenti che ha generato. La realtà, pur continuando a restare tale, imita il mondo virtuale (deve avere un sembiante di realtà empirica). Vogliamo una realtà costruita e sceneggiata in ogni particolare, con tutto quel che serve per divertirci e rassicurarci, vogliamo una realtà su misura che mantenga comunque un’apparenza realista. Il pubblico vota, le scrittore deve accettare il risultato. Ricordarsi di modificare un dettaglio (star bene attenti di non urtare nessuno), sviluppare un personaggio (un personaggio può essere positivo o negativo), cambiare argomento (ci sono temi letterari e temi non letterari). Meglio scrivere della mamma che di soldi. E lo scrittore deve avere bene in testa il dovere civile dell’happy end.
Lo scrittore non deve più istigare a pensare.
Lo scrittore – illusionista, saltimbanco, ventriloquo – sa bene di non avere scampo perché il lettore è sempre più partecipe del suo lavoro. Deve offrire un visione del mondo che non sia vincolante o negativa. Lo scrittore non scrive un romanzo, ma lo costruisce, occupandosi del montaggio. A volte traspone il mondo reale: non lo inventa, lo copia. Ma cambiare un nome, un ruolo o un indirizzo per camuffare la realtà non basta per dirsi creatori di universi immaginari. E cos’è un universo immaginario? Vampiri che combattono? Non è più in un romanzo che possiamo trovare un universo puramente immaginario. L’atteggiamento è cambiato, non sappiamo più andare oltre quel che vediamo, uscire dal quadro. Anche lo scrittore è travolto da una valanga di informazioni. La capacità di trovare nessi è un prodotto dell’immaginazione e oggi non sappiamo più collegare gli elementi tra loro. O meglio: non possiamo più.
Forse la vera domanda non è più cosa può dare la letteratura, o il romanzo, ma cosa il lettore vuole ricevere: l’immagine riflessa di se stesso.
Come scrivere la trama del mondo?
Chi scrive la trama del mondo oggi? Quelli che sanno inventare un mito, una leggenda. Una storia che stia in piedi e che convinca il pubblico. Sceneggiatori della realtà. Storyteller. Produttori di miti senza scrupoli. Quelli che hanno scritto i reality, che hanno fatto i politici con lo stampino, che scommettono sui depositi di bilancio di un paese.

Quando si parla di realtà, s’intende ciò che è, la vita reale, non la vita che sogniamo, la vita che vorremmo avere, ma la vita com’è. Il mondo non riscritto. La realtà non è la finzione o non lo era fino al giorno in cui storyteller di ogni sorta hanno deciso di raccontare la realtà in un modo totalmente diverso da quanto avremmo potuto fare noi: la finzionalizzazione della realtà da parte di un esperto della manipolazione o del marketing. Manipolazione della realtà attraverso la finzione.

I nuovi mezzi di comunicazione manipolano le cose come pare a loro. Non si sa più cosa sia vero e cosa non lo sia. Fox News, ad esempio, ingaggia falsi giornalisti per girare falsi reportage su false notizie. Abbiamo sborsato 3 milioni di dollari per questi canali tv. Decideremo noi cosa sono le informazioni. Vi diremo noi quali sono le ultime notizie (David Boylan).

Non esistono né gloria né potere senza una buona storia che ne parli. Si tratta sempre di lasciare una traccia della propria vita. Ad ogni uomo politico serve una buona storia. Lo storytelling è un racconto che parla al cuore, non alla ragione: per capire l’importanza dell’emozione e dell’empatia basta vedere come gli uomini politici ci spingano ad accettare l’immensa truffa economica di questi anni.

Con le emozioni non si pensa e con l’empatia non si ragiona. Al dominio dell’emozione si accompagna il divieto di affrontare alcuni argomenti, per preservare le persone suscettibili. Ma a volte capita che un giornalista o uno scrittore trasgrediscano la regola della suscettibilità. Un gruppo di integralisti islamici ha dato fuoco alla sede di Charlie Hebdo (giornale satirico francese) per una prima pagina giudicata ingiuriosa (una vignetta mostrava un numero speciale intitolato Charia hebdo di cui Maometto sarebbe stato il caporedattore). Roberto Saviano vive sotto scorta perché ha attaccato la camorra che ora lo vuole morto; dal 1989 Salman Rushdie ha scritto a lungo in clandestinità, colpito da una fatwa.

Anche gli storyteller scrivono il mondo, inventano i miti, ma sono storie fatte per vendere un prodotto, una proposta politica, o per nascondere un maneggio economico. Non c’è ricerca della verità. Se ne fregano di quel che non funziona, anzi, sfruttano proprio quello che non funziona per guadagnare di più. Il charity business è sempre all’opera. Una bella storia che punta dritta al cuore porta soldi ai paesi disagiati, solo che i soldi non arrivano mai a destinazione, eppure la gente continua comunque a mandarne. Gli storyteller sono esperti di marketing, di pubblicità, di comunicazione, sono gli specialisti dell’emozione. Nel settore commerciale, nel settore industriale, nella scienza, nella politica, nei media: tutti raccontano storie. Tutto passa per una storia. In questo modo ci costringono ad accettare il fatto di essere sorvegliati e braccati in permanenza dalle telecamere, dai microchip: ci dicono che lo fanno per il nostro bene, per proteggerci. E la realtà? Nessuno la vuole, se non forse in un certo tipo di letteratura dove la si trova fatta su misura, o nei reality, dove c’è per forza, ma pure lì non è una realtà oggettiva ma una realtà elaborata, truccata per scopi ben precisi. Con una buona storia si vende tutto.

La confessione pubblica è in auge, funziona, commuove: «chiedo scusa e domando perdono». Oggi, con l’aiuto di un buon storyteller, perfino Hitler otterrebbe il perdono. È ormai chiaro che l’atteggiamento che vige nella telerealtà ha preso piede: qualsiasi ignominia è accettata, ogni malefatta inquadrata correttamente in un racconto è data per buona. E invece di restare confinato in una trasmissione televisiva, invece di restare entro il limite del divertissement, questo tipo di comportamento si normalizza, si banalizza, si espande, come un virus.

Grazie agli storyteller, il romanzo si scrive sempre più al di fuori della letteratura, deborda e si diffonde in tutti i campi. La gente esige che le si racconti delle storie. Si domanda alla realtà di ogni giorno, alla realtà quotidiana, di essere una finzione, che si adatti all’idea che ci si fa di una vita perfetta, fondata sulla fortuna e sulla felicità, senza incidenti. Che si tratti di Bush, Sarkozy o Berlusconi, tutti e tre hanno fatto ricorso a degli storyteller che riscrivono i loro errori – e le conseguenze le conosciamo – per renderli accettabili. Viviamo in mezzo alle fake stories, siamo entrati nell’era narrativa in cui si devono scrivere storie sempre più commoventi, a discapito della verità o della realtà.

La realtà è morta, viva la realtà.

La finzione sociale è una realtà. L’economia virtuale è una realtà. Gli storyteller hanno costruito delle storie perfette. Il principio di precauzione ha generato la finzione sociale. La gente esige un happy end a tutti i costi, fin dentro la propria vita. Quel che non ci si aspetta è eliminato.
Un romanzo che si ostina a pensare il mondo non può essere ben visto.
La società, la nostra invenzione principale, la realtà di tutti, non va come vorremmo. Ci sentiamo intrappolati. Senza possibilità di azione sulle nostre vite. Senza possibilità di scelta. E allora, che si fa? Come posso riprendermi la mia vita? Come posso riappropriarmi della possibilità di scegliere da solo? Come posso influire sul mio ambiente senza doverlo soltanto subire?

Il romanzo che oltrepassa il dato sociale, che si ribella contro la distrazione non ha scelta. Deve servirsi della distrazione per trasmettere ciò che vuole trasmettere. Perché?

In un romanzo, si può pensare. Grazie a una narrazione, si può seguire un filo conduttore, partecipare allo sviluppo del pensiero, rimanendo entro i limiti dello spettacolo. Il filo conduttore tira. Ci si può interrogare su cosa sia tutto questo. Il romanzo non è soltanto una specie di scuola del mondo, ma è allo stesso tempo, oggi più che mai, un’occasione per pensare il mondo. Nel romanzo il senso critico riprende il suo senso. Si può fare di tutto, in un romanzo.

Il romanzo, il racconto, diventa così una possibile offensiva contro lo storytelling professionale. Lo scrittore diventa argomento di attualità. Il romanziere si muove sullo stesso terreno dello storyteller, è anche lui un inventore di storie specializzato e la sua forza è quella di poter pensare in termini linguistici. L’uomo è il suo discorso. Il linguaggio è una storia di parole. Con le parole si può controbattere. Nel campo della narrazione, chi può battersi meglio di uno scrittore?

Traduzione di Delfina Crannascro